di Anton Cechov
regia Carmelo Rifici
martedì 2 febbraio, 20:45 | Sala Maggiore |
mercoledì 3 febbraio, 20:45 | Sala Maggiore |
NOTE DI REGIA
Perché scegliere di fare Gabbiano? E’ la domanda che continuo a farmi, alla quale non ho risposta. Almeno non una. Intanto è un Classico e questo mi permette di lavorare sulla memoria di un testo che ho sempre amato, su cui ho sempre lavorato, sul quale ho fatto centinaia di ipotesi, che ogni volta cambiano e si contraddicono. In secondo luogo mi viene da dire che Gabbiano parla di cose che tutti sanno: di rapporti familiari, di conflitti e di delusioni, senza averne consapevolezza. Entrare in un mondo familiare e vedere che ogni volta ti mostra qualcosa che non avevi notato dà la curiosa sensazione di visitare un universo conosciuto e, al tempo stesso, misterioso: “Čechov è talmente semplice che fa paura”, diceva Gor’kij.
Gabbiano è veramente un testo misterioso: ci mostra un’umanità, una famiglia che non riesce mai ad essere sincera e che, per riuscire a convivere, deve continuamente mentire e immaginarsi di essere qualcosa che non è.
Nel momento però che una cosa è immaginata, non diventa comunque vera?
In Gabbiano tutti si rappresentano, anzi sono tutti ossessionati dalla rappresentazione. Si impegnano a vivere una vita che non è la loro e tentano di eternarla, di renderla un presente continuo. Non sarà perché tentano disperatamente di fermare la vita e il bloccare dentro di loro il sinistro desiderio di voler uscire, volare via per fare parte di qualcosa di più grande? Kostantin, nel suo testo, parla di un’anima universale che tutto ingloba; il medico Dorn parla del destino dell’umanità di ricongiungersi, prima o dopo, ad un tutto. Nina dice: “pensano che io voglia fare l’attrice, ma io sono attratta dal lago, come un gabbiano”. “Anche lo spirito è fatto di materia”, dice il maestro Medvedenko.
Teatro e mistero, verità e sogno. Non a caso i protagonisti sono attori, scrittori, registi, e l’umanità che gira intorno a loro, fatta di contadini, di lavoratori, non sogna altro che essere attori e scrittori. Ossessione della rappresentazione di sé. I personaggi recitano su un palcoscenico che si specchia in un lago che mostra a sua volta la loro misera umanità e l’incapacità di volare in alto. Il lago li attrae verso il basso. Il lago: l’etimologia della parola viene dal latino Lacus e significa cavità, spaccatura, incavo riempito d’acqua, che lega anche con laké, il baratro. Se la parola fosse presa nel suo significato simbolico, potremmo dire che chi vive vicino ad un lago vive su una spaccatura, su un baratro. Il lago, quindi, condiziona le vite di chi lo abita, di chi lo affronta. L’incavo è però riempito d’acqua dolce, piatta, che fa da specchio. Per questo, spesso, il Lago diventa anche sinonimo di occhio, è l’occhio (profondo) dentro il quale ci si specchia. Il teatro è il grande specchio del mondo. Non potrebbe essere che il lago e il teatro in ?echov siano la stessa cosa? Non potrebbe essere che è la rappresentazione a spingere l’uomo verso il baratro e a impedirgli di spiccare il volo verso l’alto? Ma l’ossessione alla rappresentazione non è comunque un tentativo dell’uomo di sconfiggere la morte? Immaginarsi di essere altro da sé e dare corpo all’immaginazione, non è un modo per lasciare delle tracce nel mondo?