L'Avaro
Prosa

L'Avaro

Teatro delle Albe

traduzione di Cesare Garboli
ideazione di Marco Martinelli e Ermanna Montanari
con Loredana Antonelli, Alessandro Argnani, Luigi Dadina, Laura Dondoli, Luca Fagioli, Roberto Magnani, Michela Marangoni, Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Alice Protto, Massimiliano Rassu, Laura Redaelli
spazio di Edoardo Sanchi
luci di Francesco Catacchio e Enrico Isola
musiche originali di Davide Sacco
costumi di Paola Giorgi
regia di Marco Martinelli
produzione Ravenna Teatro in collaborazione con AMAT (Associazione Marchigiana Attività Teatrali) e ERT (Emilia Romagna Teatro Fondazione)

Spettacoli

mercoledì 23 novembre, 20:45Sala Maggiore
giovedì 24 novembre, 20:45Sala Maggiore

AVARI
1. In questa commedia sul denaro, il denaro non c'è. Se ne parla sempre, ma non c'è. Meglio: non si vede. È invisibile, come un dio. È il dio di quella miserabile religione di cui Arpagone è l'officiante. È un fantasma che circola tra gli esseri umani in carne e ossa. È sottoterra, sepolto in giardino.

2. Visibili sono gli esseri umani, anche troppo. Cercano di nascondersi gli uni agli occhi degli altri, ma non ce la fanno. Il privato e il pubblico, il segreto e lo spiattellato, sono inesorabilmente confusi. Non è possibile nessun genere di intimità. In questa commedia, in questa "casetta", tutti spiano tutti.

3. Arpagone è l'avido, l'avaro, l'ossesso. E gli altri? Non si tratta di leggere al nero Molière, lo si sa da un pezzo, Molière è cupo come la notte, come il manto di Scaramouche, e soprattutto in questa commedia che Copeau definiva "la più dura, la più cattiva". Prendiamoli uno a uno, a partire dai giovani: Valerio è un ipocrita dichiarato, teorizza la necessità del "leccare" il potente di turno, a fin di bene s'intende. Cleante è un cinico vanesio, sogna di uccidere il padre e ereditarne il capitale (e l'avarizia). Elisa e Mariana sono le vittime più o meno consenzienti, più o meno silenziose, dentro a una condizione subalterna che accettano passivamente. Frosina e Saetta, servi che ambiscono al denaro del padrone. Tutti desiderano lo scettro del potere, nel nostro caso quel microfono che amplifica la "voce del padrone", tutti vorrebbero sostituire il cupo signore di quella casa, o accomodarsi a fianco di un nuovo reggente. Arpagone è un piccolo sovrano con la sua corte popolata di larve, la sua voce troneggia, ma a differenza di Macbeth non verrà sgozzato, dato che il finale non può che essere lieto, e qui è fin troppo di maniera, con modi che echeggiano i finali posticci e avventurosi di tanta tradizione, e alle nostre orecchie richiamano molto da vicino i ricongiungimenti familiari che ci ammanisce in serie la televisione.

4. Forse solo Mastro Giacomo prova a portare una nota diversa: la tenerezza della ragione. In altre commedie di Molière sono le serve che cercano di far ragionare il loro maniaco, ossessivo padrone. Ma la nota apparentemente diversa di Mastro Giacomo nasce da un impasto di pavidità, rassegnazione, invidia, che la rende alla fin fine poco credibile.

5. Se tutti spiano tutti, tutti sognano tutti. In questa commedia così tutta cose, concretezza, cifre, calcoli, c'è un fondo misterioso. Che forse è questo essere sdoppiati (tranne Arpagone), fra ciò che si dice di essere e ciò che si è. Il mistero sta forse in quel che sognamo di noi, in come sognamo gli altri. Nel potere che il nostro corpo subisce, che il nostro corpo esercita, fin dentro ai sogni, quelli notturni e quelli a occhi aperti. I fantasmi dei sogni. I simulacri. I fantasmi dei corpi. Ma appunto non è un simulacro, un fantasma, l'invisibile dio denaro al centro di ogni frase? In principio era il soldo. E accanto al soldo, prima o dopo, il sesso, l'eternità in forma di prostituzione. Dietro Molière, fa capolino Sade. Meglio, è Molière che occhieggia divertito dietro la plumbea prigione di Sade.

6. Se il denaro è la "prostituta universale", come non può non essere un potenziale bordello questa casa-casetta-palazzo di Arpagone? A dispetto del suo puritanesimo economico, lo è. La modalità di reclutamento di Mariana da parte di Frosina è antica come il mondo, e sempre attuale.

7. Se tutti sono avidi e avari, è sorprendente il monologo di Arpagone che chiude il quarto atto. Nel suo andamento psichico, in quel parlarci nel buio, dal buio: "povero mio denaro, amico mio caro... se tu non ci sei... è finita per me, non so che cosa fare al mondo". Arpagone ci parla come un innamorato. Il malvagio estrae dalla sua perdita, dalla sua ferita, degli accenti toccanti. Chiede al buio della platea di essere "resuscitato". Non abbiamo alterato la traduzione di Cesare Garboli, e i cinque atti ci sembrano scritti ieri. Oggi.

Marco Martinelli e 
Ermanna Montanari

Condividi su